Nuove evidenze scientifiche mostrano come il WiFi non sia dannoso per la salute. A cadenza regolare alcuni gruppi di persone continuano ad affermare la loro presunta intolleranza ai campi elettromagnetici. Il disturbo cui viene fatto riferimento si chiama elettroipersensibilità (EHS) ma non esistono evidenze scientifiche che forniscano parametri in grado di dimostrare il rapporto di causa-effetto tra sintomi ed esposizione. Anzi, le conclusioni di tutti gli studi vanno in direzione diametralmente opposta, compresi quelli svolti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Iniziamo con alcune premesse. Ognuno di noi vive in un “mare” di radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti: esse permeano la nostra civiltà e l’inquinamento elettromagnetico, seppur con varie intensità, è diffuso oggi sia nelle aree densamente popolose così come in quelle meno urbanizzate.
È vero, i dispositivi WiFi contribuiscono – loro stessi – all’inquinamento elettromagnetico ma il loro apporto è considerarsi talmente contenuto da essere sostanzialmente insignificante.
Nel caso dei router, degli access point e degli altri dispositivi WiFi le informazioni vengono trasferite usando lunghezze d’onda inferiori a quelle della luce (spettro ottico, visibile): in questi casi non vi sono rischi di alterazione delle molecole che compongono il tessuto del corpo umano (si parla infatti di radiazioni non ionizzanti).
Le potenze in gioco, nel caso del WiFi, sono inoltre davvero contenute: il segnale emesso da un router WiFi o da una scheda wireless installata in un PC è solitamente dell’ordine dei 100 milliwatt, valore che è ampiamente al di sotto della soglia considerabile come potenzialmente pericolosa.
Nel nostro Paese, come in Europa, qualunque privato può allestire un hotspot WiFi a patto di rispettare le potenze massime consentite ovvero 20 dBm EIRP o 100 mW.
Via a via che ci si allontana dal router o dal dispositivo WiFi la potenza del segnale decresce rapidamente: basti pensare che se un router trasmette con una potenza pari a 100 mW (0,1 W), a distanza di due metri si assorbiranno appena 0,025 Watt; a quattro metri 0,00625 Watt e così via.
Quella che viene seguita è infatti la legge dell’inverso del quadrato (così come nel caso della luce, del suono, della gravità). La formula da applicare è molto semplice: 1/d2 dove d è la distanza dal router o dell’access point WiFi.
Quanto riassunto dovrebbe già far decadere i sospetti che, a torto, in molti continuano ad avere sul WiFi (per approfondire vedere l’articolo Il Wi-Fi è pericoloso per la salute? I falsi miti da sfatare).
Spegnere un router WiFi perché si hanno dubbi sulla sua potenziale pericolosità non ha senso se, ad esempio, non si spengono definitivamente il cellulare o lo smartphone: l’assorbimento di onde elettromagnetiche generate da un hotspot WiFi in un intero anno può essere paragonato ad una chiamata su telefonia mobile di appena 20 minuti.
Qualunque “precauzione” assunta in materia di WiFi, quindi, viene automaticamente annullata con l’utilizzo dei normali cellulari.
Prima di pensare al WiFi bisognerebbe chiedersi quanto possa far male – in proporzione – camminare per ore e ore sotto il sole cocente senza una adeguata protezione. Le radiazioni caratterizzate da una lunghezza d’onda molto contenuta sono infatti le più pericolose e sono dette ionizzanti (ultravioletto, raggi X, raggi gamma).
Ecco quindi che la stessa radiazione solare, giusto per fare un esempio, può tradursi in un reale pericolo, molto più di quanto non lo sia il WiFi.
Lo studio accademico pubblicato in questi giorni scagiona il WiFi: non fa male alla salute
Kenneth R. Foster, professore emerito dell’Università della Pennsylvania (USA), ha pubblicato un nuovo interessante studio sul WiFi con cui fornisce alcune evidenze scientifiche per confutare i dubbi di coloro che ancor oggi considerano router e access point wireless come un pericolo.
Foster conferma quanto illustrato in apertura spiegando che le radiofrequenze (RF) sono radiazioni non ionizzanti. I dispositivi WiFi in particolare lavorano nello spettro delle microonde, in generale tra 300 MHz e 300 GHz. Questa stessa ragione dello spettro delle frequenze è utilizzata per ogni genere di attività legata alla telecomunicazione.
Per tipologia degli impulsi utilizzati e per le potenze in gioco, un router o un access point che funzionano alla loro massima capacità possono essere paragonati, al massimo, all’attività di un singolo telefono mobile in uso all’interno del medesimo ambiente.
L’esperto cita anche lo studio del 2017 elaborato da Lena Hedendahl e dai colleghi svedesi in ambienti scolastici. Le conclusioni hanno dimostrato come il livello di esposizione a radiofrequenze dei singoli individui all’interno della scuola con l’utilizzo continuo di un router WiFi fosse esattamente identico a quello rilevato all’esterno degli ambienti scolastici.
Più di recente un gruppo di studiosi capeggiato da Elisabeth Cardis (Università di Barcellona) ha verificato i livelli di esposizione di circa 530 ragazzi di età comprese tra 8 e 18 anni in diverse nazioni. Il risultato? Le esposizioni da RF nelle scuole erano generalmente paragonabili o inferiori a quelle registrate in altri ambienti: Il 95% dei bambini aveva il WiFi a casa, e tre quarti di loro usavano telefoni cellulari, con più di un terzo degli studenti che accedono a Internet tramite telefoni cellulari per più di 30 minuti al giorno.
In conclusione, le esposizioni ai segnali WiFi sono molto al di sotto dei limiti di sicurezza e generalmente inferiori alle esposizioni da altre fonti RF. E mentre il nostro mondo è letteralmente inondato di radiofrequenze provenienti dalle sorgente più disparate, il WiFi rappresenta solo una piccolissima parte del totale.
Per approfondire, suggeriamo la lettura dell’articolo pubblicato a questo indirizzo.