L’utilizzo delle varie applicazioni social e soprattutto quello delle piattaforme di messaggistica può consistere in un pericolo per gli utenti senza che essi manco lo sappiano. Il reato di diffamazione aleggia nell’aria quotidianamente e in ogni momento, con gli utenti che usano WhatsApp che probabilmente non se ne accorgono neanche.
Bisogna comunque chiarire alcuni aspetti: offendere una persona all’interno della celebre app di messaggistica non equivale al pubblicare un’offesa su Facebook ad esempio. A chiarirlo è la cassazione.
Diffamazione: quando si configura il reato
Si può parlare di diffamazione quando si va ad offendere la reputazione di una persona assente. Tutto può avvenire comunicando l’offesa a più persone. Al contrario, se l’offesa avviene in presenza della vittima (ad esempio in una chat privata), si parla di ingiuria, che non è più un reato ma un illecito civile con obbligo di risarcimento e sanzioni amministrative. Detto ciò, quando un messaggio offensivo viene inviato in un gruppo WhatsApp, si configura il reato di diffamazione semplice. Anche se la chat è numerosa, la Cassazione (sentenza 42783/2024) ha stabilito che WhatsApp non costituisce un mezzo di pubblicità, poiché i contenuti sono visibili solo a un gruppo limitato e definito di partecipanti.
In questo caso, la pena prevista è:
- Reclusione fino a un anno;
- Oppure una multa fino a 1.032 euro.
Facebook: diffamazione aggravata e pena
Diverso è il discorso per un post pubblicato su Facebook. Essendo una piattaforma aperta, i contenuti possono raggiungere un pubblico vasto e indefinito, amplificando l’offesa. In questo caso, si configura la diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità, che prevede pene più severe:
- Reclusione da sei mesi a tre anni;
- Oppure una multa non inferiore a 516 euro.
Mezzo di pubblicità: ecco cosa significa
L’aggravante del mezzo di pubblicità scatta quando l’offesa viene diffusa tramite strumenti capaci di raggiungere un numero indeterminato di persone, come giornali, radio, televisione o internet. WhatsApp, pur coinvolgendo più individui, conserva una natura privata e circoscritta. Facebook, invece, rende i contenuti accessibili a chiunque, creando una potenziale diffusione senza controllo. Questi sono alcuni esempi:
- Gruppo WhatsApp: se Tizio scrive un insulto contro Caio in una chat di gruppo con centinaia di membri, si configura la diffamazione semplice. Anche in un gruppo numeroso, la chat resta riservata agli iscritti.
- Post su Facebook: se Tizio pubblica un post offensivo su Caio, l’offesa viene aggravata dal mezzo di pubblicità, perché il contenuto può essere visto da chiunque acceda alla piattaforma, compresi estranei.
Cosa fare se si subisce diffamazione
La persona offesa può:
- Presentare una querela entro tre mesi;
- Richiedere un risarcimento del danno entro cinque anni.
L’aumento delle comunicazioni digitali ha reso la diffamazione sempre più frequente, ma la legge stabilisce chiaramente quando si configura il reato e quali sono le sue conseguenze.