Ha scatenato una pioggia di critiche l’approvazione della cosiddetta “Web tax”, normativa che vorrebbe obbligare le grandi società multinazionali a versare le tasse al fisco italiano. Nel mirino ci sono i cosiddetti “over the top” ovvero pezzi da novanta come Google, Facebook, Amazon, Apple e così via.
Seguendo una prassi piuttosto comune (non sono a società di grandissime dimensioni…) questi nomi hanno fissato la loro sede amministrativa, per quanto riguarda il territorio europeo, in Paesi ove il regime fiscale è molto più favorevole (solitamente Irlanda e Lussemburgo). L’obiettivo è quello di gestire tutti gli adempimenti fiscali in una nazione che dà modo di “risparmiare” notevolmente sulle tasse da versare all’erario.
Considerato che Facebook – nel 2012 – ha versato nelle casse del fisco italiano una sciocchezza, appena 192.000 euro, almeno all’apparenza parrebbe sensato porre subito dei paletti come stato italiano.
È importante, però, analizzare con attenzione il contenuto dell’emendamento alla Legge di Stabilità – promosso da Francesco Boccia, firmato da Edoardo Fanucci e Stefania Covello – così come venerdì scorso è stato approvato in commissione presso la Camera dei Deputati.
“I soggetti passivi che intendano acquistare servizi on line sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana” è il primo punto dell’emendamento.
Cosa significa? Che i soggetti che esercitano attività d’impresa, arte o professione in Italia saranno tenuti ad acquistare “servizi online” solo attraverso titolari di P.IVA italiana. Con due righe, quindi, si toglie la possibilità di fare business online con realtà straniere. L’utilizzo del termine “servizio online” abbraccia una moltitudine di strumenti acquistabili online: oltre alla pubblicità (spazi pubblicitari sui siti web) è possibile tranquillamente annoverare sotto la definizione di “servizio online” anche l’acquisto di servizi di hosting, housing, di storage “in the cloud”, il download di applicazioni mobile a pagamento, l’acquisto di brani musicali e così via.
Il secondo comma: “Gli spazi pubblicitari on line e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca (altrimenti detti servizi di search advertising), visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito o la fruizione di un servizio on line attraverso rete fissa o rete e dispositivi mobili, devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti (editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario) titolari di partita IVA italiana. La disposizione si applica anche nel caso in cui l’operazione di compravendita sia stata effettuata mediante centri media, operatori terzi e soggetti inserzionisti“. Tradotto, la pubblicità online dovrà essere acquistata esclusivamente in Italia. Il rischio è quello che le imprese italiane vengano di fatto tagliate fuori dal mercato pubblicitario globale.
Infine il terzo comma: “Il regolamento finanziario, ovvero il pagamento, degli acquisti di servizi e campagne pubblicitarie on line deve essere effettuato dal soggetto che ha acquistato servizi o campagne pubblicitarie on line esclusivamente tramite lo strumento del bonifico bancario o postale, ovvero con altri strumenti di pagamento idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni ed a veicolare la partita IVA del beneficiario“.
In questo caso, viene depennata in un sol colpo la possibilità di ricorrere a tutti gli strumenti di pagamento elettronico sui quali si è tanto investito in questi anni e sui quali si stanno concentrando gli sforzi di chiunque abbia la necessità di vendere prodotti in modo semplice e veloce.
Il testo dell’emendamento è stato aspramente criticato Oltreoceano. Forbes, celeberrima rivista statunitense di economia e finanza, lo ha definito – senza giri di parole – “illegale“. Il diritto comunitario europeo, infatti, prevede quanto segue: “le persone che esercitano attività indipendenti e i professionisti o le persone giuridiche che operano legalmente in uno Stato membro possono esercitare un’attività economica in un altro Stato membro su base stabile e continuativa od offrire e fornire i loro servizi in altri Stati membri su base temporanea pur restando nel loro paese d’origine“.
Secondo più di un analista, quindi, un provvedimento come quello approvato alla Camera rischierebbe di esporre l’Italia ad una nuova procedura d’infrazione, avviata in sede europea. Sarebbe d’altra parte possibile, per un’azienda italiana – indipendentemente dalle sue dimensioni -, aprire una P.IVA in ogni singolo stato europeo per avviare le vendite di beni e servizi oltre i nostri confini nazionali? Difficile, se non impossibile, o quanto meno troppo oneroso.
Il provvedimento, inoltre, oltre che penalizzante per le realtà d’impresa del nostro Paese, potrebbe non condurre nemmeno ai risultati sperati. Le società straniere, infatti, sarebbero tenute a versare nelle casse dello stato italiano solamente l’IVA (cosa che è già prevista dalla normativa comunitaria a partire dal 1° gennaio 2015) e non vi è un obbligo alla tassazione dei loro redditi.
Il quesito che in molti pongono è semplice: non sarebbe stato meglio affrontare il tema della tassazione delle società “over the top” in sede europea in modo da giungere ad una soluzione comune e condivisa? Il rischio è quello di ostacolare, anziché promuoverlo, lo sviluppo dell’economia digitale italiana disincentivando gli investimenti provenienti dall’estero.
Aggiornamento del 18/12/2013
Non appena verrà diffuso il testo definito della normativa, provvederemo ad analizzarlo.