Dopo aver conquistato il 91% del mercato delle ricerche online, complice il deciso aumento nell’utilizzo dei modelli generativi da parte degli utenti finali (si pensi a ChatGPT), Google sta ripensando le sue SERP. Acronimo di Search Engine Results Pages, si tratta delle pagine che contengono i risultati delle ricerche. Per gli editori online, rappresentano una fonte di traffico essenziale. Per gli utenti sono lo strumento utilizzato fino a ieri per ottenere risposte su qualunque tipo di argomento. Almeno fino all’arrivo di ChatGPT e soci. Search Generative Experience (SGE) è uno degli esperimenti che Google sta conducendo per rimanere sulla “cresta dell’onda” e non lasciare ai chatbot di terze parti basati sull’intelligenza artificiale quote di mercato sempre crescenti.
A partire dal 10 maggio scorso, l’azienda di Mountain View ha avviato il programma di test pubblico di SGE coinvolgendo quindi direttamente anche gli utenti finali del suo motore di ricerca. Dopo aver provato SGE in anteprima, è possibile iniziare a comporre i primi bilanci.
Cos’è Google Search Generative Experience e come funziona
Come accennato nell’introduzione, SGE si integra saldamente con il motore di ricerca Google manifestando la sua presenza nella parte superiore delle SERP. Il sistema, a sua volta basato sull’intelligenza artificiale, raccoglie fatti e frammenti di testo da una varietà di siti Web e li unisce (spesso parola per parola) descrivendo l’opera come sua creazione.
Per alcune interrogazioni di ricerca, capita che SGE occupi parecchi pixel in verticale relegando i risultati classici – oggi presenti nelle SERP – in una posizione molto meno visibile, accessibile soltanto dopo un bel po’ di scrolling.
Google ha dichiarato che SGE è un esperimento e che da qui al rilascio della versione finale potrebbero cambiare tante cose. Ad ogni modo, l’obiettivo dei tecnici dell’azienda fondata da Larry Page e Sergey Brin è quello di continuare a portare traffico organico a una vasta schiera di creatori di contenuti. In altre parole, non vi è alcun intento di penalizzare chi produce e pubblica sul Web articoli di qualità sul Web. Anzi.
Il fatto è che per il momento SGE mostra appena tre riquadri con altrettanti link verso siti Web di terze parti nella parte superiore delle SERP. Per tanti analisti è francamente un po’ poco. Per Google, invece, è il modo per indicare quali sono le pagine Web (fonti) dalle quali ha tratto informazioni utili a comporre la risposta generata e visualizzata all’utente.
Le critiche rivolte a Search Generative Experience
Almeno nell’implementazione mostrata al pubblico nelle ultime settimane, Search Generative Experience ha raccolto diverse critiche. In molti osservano che vi sarebbe innanzi tutto un errore di base: la convinzione che un bot possa avere un qualche tipo di autorità. Il fatto che sia potenzialmente in grado di raccogliere informazioni da più siti Web, riassumerle, organizzarle e presentarle in maniera più o meno differente rispetto all’originale non può essere garanzia di un lavoro ben fatto. L’utente della Ricerca Google che legge quelle informazioni, può dare loro fiducia a prescindere. Ma il testo generato attraverso un modello può comunque presentare dei problemi.
Vi ricordate inoltre il provvedimento che fu approvato in Spagna alcuni anni fa e che obbligava Google a versare un “obolo” agli editori online a fronte della ripubblicazione di un estratto dei loro testi nelle pagine del servizio Google News? Ecco, quella presa di posizione era sbagliata, anacronistica, fuori luogo e ben presto si rivelò un boomerang per tante testate online che lamentarono poi effetti devastanti. Anche perché i webmaster avevano e hanno nelle mani gli strumenti per uscire da Google News o non essere indicizzati: non è possibile richiedere una contropartita economica a Google per la ripubblicazione di porzioni di testi.
Contenuti combinati usando gli articoli prodotti da più fonti. Il requisito EEAT
Nel caso di SGE potrebbe riproporsi un tema simile. Con la differenza che questa volta i testi pubblicati sul Web vengono combinati, spesso parola per parola, per formare un contenuto più lungo. Al momento non ci sono delle note frase per frase che rimandano a ciascun sito Web selezionato da Google, come fa invece Perplexity.ai, ma solo i già citati riquadri nella parte destra delle SERP.
Le risposte, inoltre, appaiono complessivamente molto superficiali e imprecise. Ma è l’ovvio risultato di un breve potpourri di informazioni provenienti da diverse fonti che l’intelligenza ha selezionato e preso di volta in volta per buone. Come potrebbe essere altrimenti? Inoltre, quelli prodotti da SGE sono contenuti che – così come proposti – possono soddisfare i requisiti EEAT (competenza, esperienza, autorità e fiducia) che da anni Google invita chi produce contenuti per il Web ad applicare scrupolosamente? Allo stato attuale sembrerebbe proprio di no.
Infine, l’attuale “declinazione” di SGE appare fortemente orientata su uno schema zero-click: gli utenti del motore di ricerca non sono invogliati a cliccare sui risultati delle ricerche ma, nel caso di tante interrogazioni, potrebbero verosimilmente accontentarsi di quanto proposto dall’intelligenza artificiale nella prima parte della schermata SERP.