È bufera su Uber, l’applicazione che – da qualunque dispositivo mobile – consente di richiedere il noleggio immediato di un’autovettura con conducente. Questa volta la polemica non è montata nel vecchio continente, bensì proprio nella terra natìa di Uber: gli Stati Uniti.
Protagonisti delle nuove bordate nei confronti di Uber non sono, questa volta, i tassisti – che continuano a protestare in Europa per la presunta concorrenza sleale che, secondo la loro tesi, Uber metterebbe in atto – ma giornalisti, politici e personaggi noti d’Oltreoceano.
L’occhio di Dio di Uber
Stando a quanto emerso nelle ultime ore, uno dei dipendenti di Uber avrebbe mostrato di essere in grado di tracciare tutti i movimenti degli utenti dell’applicazione e di poter personalmente estrarre le informazioni su ogni spostamento. La funzionalità, tradotta dall’inglese, è stata battezzata “Occhio di Dio“.
Al centro dell’operazione di tracking sarebbero stati alcuni giornalisti i quali, immediatamente, hanno chiesto precise spiegazioni osservando come attività simili violino le condizioni d’utilizzo del servizio e rappresentino una gravissima ingerenza nelle vite degli utenti di Uber.
Il CEO di Uber, Travis Kalanick, si è affrettato a porgere le sue scuse su Twitter anche se, nel frattempo, i buoi erano ormai scappati dalla stalla.
Così (nel frattempo la questione è stata portata anche nell’aula del Senato degli States), Uber si trova adesso a dover fronteggiare una magagna probabilmente ancor più delicata rispetto alla querelle coi tassisti. Il rispetto della privacy ed un adeguato trattamento dei dati personali è infatti condicio sine qua non perché gli utenti ripongano fiducia in un qualsivoglia servizio.
Entro il 15 dicembre prossimo, i vertici di Uber dovranno specificare in modo puntuale chi ha titolo per accedere al cosiddetto “Occhio di Dio” ma, soprattutto, dovranno provare a ricucire lo strappo con l’utenza che, innegabilmente, si è venuto a creare.