Nanobot, piccoli robot per curare le malattie con la potenza di un chip informatico

Un team di ricercatori accademici è riuscito a usare minuscoli nanobot per curare i tumori nei topi. Oggetto di esperimenti da anni, finalmente arrivano le prime buone notizie.

Ciò che fino a ieri sembrava solo fantascienza si sta finalmente trasformando in realtà. Circa quattro anni fa si cominciava a parlare di nanobot ovvero di microscopici robot progettati per essere inseriti nel corpo di un essere vivente con lo scopo di diagnosticare precocemente e curare le malattie.

Dopo i primi esperimenti condotti sugli scarafaggi, i ricercatori dell’università dell’Arizona di concerto con i colleghi dell’Accademia Cinese delle Scienze sono riusciti a inserire nel flusso sanguigno dei topi nanobot di dimensioni dell’ordine di qualche nanometro con lo scopo di trattare adeguatamente le cellule tumorali.

I nanobot sono stati programmati per riconoscere le cellule tumorali e iniettare sulla loro superficie una sostanza capace di favorire la coagulazione sanguigna. Questo tipo di approccio ha permesso di isolare efficacemente le cellule malate interrompendovi l’afflusso del sangue e la loro ulteriore diffusione e replicazione.


Stando anche a quanto pubblicato sulla rivista Nature, l’esperimento è brillantemente riuscito e il poter beneficiare di piccoli nanobot capaci di controllare il proprio stato di salute diagnosticando per tempo eventuali problematiche, potrebbe presto diventare davvero possibile.

Gli scienziati hanno iniziato a usare i nanobot non soltanto per rilevare malattie ma anche per sbloccare i vasi sanguigni nelle aree del corpo più difficili da raggiungere, per effettuare biopsie ma anche per controllare i livelli di varie sostanze in zone off-limits.

Che cos’è un nanobot

Un nanobot è un piccolo robot delle dimensioni pari a 0,1-10 micrometri, pari o inferiori a quelle di un comune globulo rosso.
Considerato l'”ingombro” limitatissimo sarebbe stato impossibile inserire nel nanobot un motore, un chip o una videocamera.
Così, i nanobot sono fatti di DNA e funzionano attraverso la piegatura e il dispiegamento di suoi filamenti: ecco perché sono conosciuti anche come “robot origami“.

Durante i test si è visto che i nanobot riescono a rilasciare sostanze specifiche solo quando vengono a contatto con certe tipologie di cellulare (ad esempio quelle tumorali).
Certo, i passi da compiere sono ancora tanti ma in soli quattro anni si sono compiuti balzi in avanti incredibili.
Basti pensare che i nanobot si muovono in balìa del flusso sanguigno e vista la velocità del fluido che pervade tutti i nostri vasi non è semplice fare in modo che questi minuscoli robot “si aggrappino” saldamente alle cellule da trattare. L’utilizzo di molti nanorobot per lo stesso paziente è certamente d’aiuto e consentirà operazioni sempre più mirate e complesse. Ma c’è anche il problema della naturale espulsione dei nanobot da parte del corpo che tende a riconoscerli come “oggetti estranei”.

Per adesso si è verificato come i nanobot offrano i migliori risultati nelle aree in cui la velocità del flusso sanguigno è più ridotta: i capillari degli occhi, i ventricoli cerebrali e il tratto urinario.
Gli esperti hanno comunque molti “assi nella manica”: è possibile spingere i nanobot nelle aree d’interesse usando gli ultrasuoni o, in alternativa, batteri e virus.

Ti consigliamo anche

Link copiato negli appunti