Enrico Mentana, noto giornalista nonché direttore del telegiornale di La7, ha manifestato la sua intenzione di abbandonare definitivamente Twitter. Alla base della decisione vi sarebbero i tanti insulti e le offese personali dirette da alcuni utenti del social network. “Non mi arrendo davanti a “due battute”. In un anno non ho mai bannato nessuno. Ma se il bar che amate si riempie di ceffi, cambiate bar. O no?“, scrive Mentana in uno dei suoi ultimi tweet concludendo poi con un laconico “Un saluto finale a tutti“.
Il giornalista milanese contesta una delle peculiarità che stanno alla base del funzionamento di Twitter, così come degli altri social network e, prima ancora, dei forum, degli altri spazi di discussione online e delle chat ossia l’utilizzo di nickname, di pseudonimi che celano il reale nome e cognome dell’utente.
La scelta di Mentana non può essere oggetto di critica anche se, dal “mucchio” dei suoi tanti followers è piuttosto normale che spunti il provocatore, il maleducato, l’insolente od addirittura il diffamatore. E, forse, prima di prendere una decisione tanto drastica – a tutela della propria immagine – e per cercare soprattutto di venire incontro ai tanti seguaci che apprezzano Twitter come strumento per colloquiare velocemente, in maniera corretta e leale, anche con personalità di spicco, si sarebbero dovuti soppesare i pro e i contro della scelta.
Lasciando da parte queste riflessioni, è l’appunto sul concetto di anonimato che merita un approfondimento. Che la rete Internet sia sinonimo di anonimato è un falso mito: dispiace che ad affermarlo sia un giornalista navigato come Mentana. La rete Internet, di per sé, non offre alcun livello di anonimato. Contrariamente a ciò che in molti ancor’oggi pensano, le operazioni effettuate online da parte di un utente possono essere facilmente ricostruite. Tutte le azioni compiute in Rete lasciano tracce in molti punti: i provider Internet sono obbligati a conservare i log degli accessi per un periodo non inferiore a dodici mesi (almeno in Italia), i server web che ospitano i siti visitati tengono anch’essi traccia dei client via a via connessi, per non parlare di ciò che accade tra l’origine e la destinazione dei pacchetti dati.
Chi si iscrive a Twitter è obbligato – non solo a scegliere lo pseudonimo – ma anche ad indicare il proprio nome e cognome e, soprattutto, un indirizzo e-mail. È vero che il nome e cognome possono essere “di fantasia” (anche se ciò è espressamente vietato dalle condizioni d’uso del servizio) ma l’indirizzo e-mail specificato dev’essere per forza reale, esistente. Non appena l’utente accede a quell’indirizzo e-mail, ad esempio per confermare la sua registrazione su Twitter, lascia delle tracce (indirizzo IP utilizzato, in primis). Escluse alcune situazioni limite in cui l’utente, estremamente smaliziato, ha fatto in modo di non lasciare informazioni (o ridurle al minimo) circa la sua identità, è solitamente molto semplice risalire al nome e cognome di chi, ad esempio, ha diffamato o comunque ha gettato fango sulla propria onorabilità.
La Polizia postale e delle comunicazioni dispone di tutti gli strumenti per risalire a chi ha commesso un reato online: c’è bisogno di una denuncia, è ovvio, ma questo accade anche fuori dal “mondo virtuale”.
Il commento di Mentana (“curioso: gli argomenti usati dai difensori dell’anonimato su Twitter son gli stessi addotti dai massoni per giustificare le logge coperte“) lascia quindi piuttosto meravigliati ed è forse giustificabile in forza delle accuse gratuite ricevute da alcuni followers.
L’utilizzo di un nickname è perfettamente legale, ed anzi, come ricorda Guido Scorza – uno dei più autorevoli esperti di diritto informatico e di tematiche connesse alla libertà di espressione ed alle politiche di innovazione – il concetto è stato sancito dai Garanti della Privacy Europei sin dal 2008 e ribadito, più di recente anche dal nostro Garante per il trattamento dei dati personali. “A ciascuno, quindi, scegliere se presentarsi online con il proprio nome e cognome o, invece, usare uno pseudonimo moderno ovvero un nickname, una modalità di “firma” e non di anonimato, diffusa da tempi ben più antichi della Rete“, scrive Scorza.
Se una persona diffama nel “mondo reale” forse non si cerca di stabilirne l’identità facendo intervenire le forze dell’ordine? È esattamente la stessa cosa che accade in Rete nel caso dei nickname e che comunque accade nel caso in cui un utente si firma col suo nome e cognome. Tipicamente, a meno che l’ingiuria non arrivi attraverso un’e-mail certificata (ma chi lo farebbe?), non v’è infatti alcuna garanzia che il nome e cognome riportato corrisponda a quello della persona che ha realmente commesso il reato.
L’auspicio di Mentana ci ha ricordato il vecchio disegno di legge Carlucci che nel 2009 sollevò un vero e proprio vespaio (DDL Carlucci: si torna a parlare di anonimato in Rete). Su questi argomenti, passata l’arrabbiatura del momento, bisognerebbe forse sforzarsi di muoversi con la massima cautela: il rischio è che si dia l’impulso per l’approvazione di norme superflue (il cittadino della Rete ha già oggi nelle sue mani tutti gli strumenti per difendersi…) che accomunerebbero il nostro Paese ai regimi totalitari.
Il Codacons, associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, ha chiesto – da parte sua – “una riforma volta ad incrementare i poteri in capo alla Polizia Postale, aumentando la capacità d’azione di tale compartimento e permettendo interventi immediati per oscurare siti e profili lesivi e/o pericolosi e individuare i responsabili che si nascondono dietro l’anonimato garantito dal web. L’associazione chiede inoltre un incontro con l’Autorità per le Comunicazioni al fine di studiare interventi e misure per migliorare la vigilanza e i controlli da parte dei responsabili dei social network“.
Che ci sia la volontà di aiutare la Polizia postale e delle comunicazioni, soprattutto in un’epoca in cui la partecipazione attiva degli utenti, in Rete, ha raggiunto forse i suoi massimi livelli, rafforzandone i poteri (ne aveva di recente parlato, peraltro, anche il Dirigente Superiore Antonio Apruzzese) è certamente cosa buona e giusta ma, allo stesso tempo, è impossibile pretendere un monitoraggio costante da parte dei “gestori” di un social network o degli amministratori di un sito web che mette a disposizione degli iscritti strumenti per l’interazione reciproca.
Un “intermediario della comunicazione”, anche secondo le disposizioni europee, non ha obbligo di sorveglianza sui contenuti prodotti e pubblicati dagli utenti. E non potrebbe di fatto averlo vista la mole di messaggi che vengono quotidianamente scambiati e pubblicati online come nel caso di Facebook, Google o Twitter (ne avevamo parlato nell’articolo Corte di Giustizia europea: i provider non devono “filtrare” e nel più recente Video-scandalo: i perché dell’assoluzione di Google).
Piuttosto, sarebbe importante lavorare anche su una sorta di “rivoluzione culturale”: chi scrive messaggi online dev’essere consapevole che i suoi interventi hanno lo stesso valore legale dei commenti rilasciati pubblicamente nella vita reale. La Rete, insomma, non è una “realtà parallela” e lo stesso codice di comportamento da seguire è quello che dovrebbe essere sempre applicato nella vita reale.