A distanza di poco più di un anno dall’inizio del processo, tre dirigenti Google sono stati condannati dal Tribunale di Milano con una sentenza che ha immediatamente sollevato un enorme polverone, sia nel nostro Paese che a livello internazionale. La notizia si è infatti subito guadagnata la prima pagina su tutti i principali quotidiani stranieri: Wall Street Journal, Financial Times e New York Times le hanno immediatamente dato massima visibilità.
Il procedimento verteva sulla pubblicazione, avvenuta nel 2006, di un video che ritraeva un ragazzo affetto dalla sindrome di down mentre veniva molestato da parte di un gruppo di compagni di classe. Il materiale fu posto online sul servizio “Google Video“, oggi accantonato dal colosso di Mountain View in favore di YouTube, acquisito il 10 ottobre 2006.
La sentenza emessa ieri dal Tribunale di Milano ha subito causato un’eco enorme su tutti i media in forza dell’importante precedente che crea. Il fornitore di un servizio Internet è stato ritenuto colpevole per aver ospitato contenuti prodotti e caricati da terzi. Non era mai accaduto nulla di simile, in alcuno dei Paesi ove Google od altre aziende concorrenti operano.
Allo stato attuale non si conoscono le motivazioni che hanno spinto i giudici del tribunale milanese ad emettere una sentenza che ha sollevato così tanto scalpore. L’unico aspetto certo è che Google, secondo i giudici, ha violato la normativa italiana a tutela della privacy.
Non è possibile non osservare come la decisione di ieri rappresenti un vero e proprio terremoto per la Rete tutta. Google, pur essendosi attivata subito per rimuovere il contenuto violento ed offensivo, è stata comunque ritenuta responsabile. Una tendenza che appare pericolosa perché mina direttamente le “fondamenta del web”: chi mette a disposizione un servizio in Rete non dovrebbe essere mai chiamato in causa. Unico responsabile dovrebbe essere colui che produce, carica e condivide online contenuti che violano la legge e non colui che mette a disposizione uno strumento per veicolare e diffondere informazioni sul web (oltretutto quando quest’ultimo mostra di esercitare un’azione di monitoraggio ed eliminazione del materiale lesivo dei diritti di terzi).
L’avvocato Guido Scorza, raggiunto in treno dalla notizia, ha fatto un paragone molto calzante: forse “i ferrovieri dovrebbero rispondere di illecito della privacy se consentono che i viaggiatori, parlando magari ad alta voce, raccontino fatti o episodi suscettibili di ledere l’altrui privacy“?
Google ha commentato come la sentenza lasci sgomenti, attaccando i principi stessi della libertà di espressione. Bill Echikson, portavoce dell’azienda ha aggiunto come nulla delle persone chiamate in causa abbia avuto nulla a che vedere con il video dello scandalo. Anche online la società, pur ribandendo come il video fosse assolutamente riprovevole, ricorda di essersi subito attivata per operare la rimozione del contenuto una volta ricevuta la notifica da parte della polizia italiana. E se il provider può diventare responsabile per ciò che viene rappresentato in ogni foto, in ogni video ed addirittura in ogni “post” pubblicato il web cesserà di esistere. Ha aggiunto Echikson.
Posizione condivisa da Marco Pancini, responsabile dei rapporti istituzionali di Google Italia, che ribadisce come la sentenza rappresenti “un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è sui quali è stata costruita la Rete. (…) La normativa vigente è stata definita appositamente per mettere gli Internet service provider al riparo dal danno di responsabilità, a condizione che rimuovano i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza. Se questi principi vengono meno, e se siti come i blog, Facebook, YouTube vengono ritenuti responsabili del controllo di ogni video, significherebbe la fine di Internet come oggi lo conosciamo, con tutte le conseguenze politiche e tecnologiche. Si tratta di principi per noi importanti, perciò continueremo a seguire i nostri colleghi in appello“.
A breve torneremo ad approfondire il tema.