Dallo scontro in aula di tribunale tra Google ed Epic Games emergono interessanti dettagli. Big G, ad esempio, ha confermato di aver offerto 147 milioni di dollari per convincere l’azienda di Tim Sweeney a lanciare il popolarissimo Fortnite sul Play Store. L’accordo (rifiutato) aveva lo scopo di arginare un fenomeno che avrebbe potuto creare non pochi problemi allo store e alle casse del colosso di Mountain View, ovvero quello delle applicazioni scaricabili da fonti diverse dal già citato Play Store.
Per chi non ne fosse a conoscenza, il Battle Royale è sbarcato nel 2018 su Android, ma al tempo per scaricarlo bastava recarsi sul sito web di Epic Games. No, non sul Play Store. Questo ha permesso all’azienda di vendere in modo diretto i V-Bucks (la valuta in-game) senza quindi dover pagare commissioni a Google così come previsto dalle norme del suo store digitale. La stessa Epic Games ha poi dovuto arrendersi nel 2020, a causa di “continui e fastidiosi pop-up di sicurezza” che informavano l’utente dei pericoli del sideloading.
Google e la paura dell’effetto domino
Tornando però alla strategia iniziale di Epic, dalla causa antitrust attualmente in corso si apprende che aveva gettato Big G nel panico. Quest’ultima temeva infatti “un rischio di contagio“, ovvero aveva paura che altri sviluppatori di rilievo – come Blizzard, Valve, Sony e Nintendo – seguissero l’esempio di Epic. Una “rivoluzione” di tale portata sarebbe costata a Google miliardi di dollari di ricavi.
In tribunale, Google ha dichiarato che al tempo negli uffici di Mountain View filtrava preoccupazione per via del ridotto interesse degli sviluppatori verso il Play Store, anche per la costante preferenza per il rivale. Ovvero l’App Store di Apple per iPhone e iPad. Epic Games ritiene invece che Big G – temendo la concorrenza – abbia agito in modo sleale e abbia reso il suo Play Store un monopolio illegale.