Un fornitore di servizi Internet non può essere chiamato a rispondere del reato di violazione della privacy se i contenuti lesivi degli altrui diritti sono stati caricati online e quindi immessi in Rete da parte di abbonati, utenti od iscritti. È quanto ha stabilito, in sostanza, la Corte di Cassazione mettendo la parola fine ad un lungo processo che vedeva coinvolti alcuni alti dirigenti di Google.
Della vicenda – relativa alla pubblicazione su Google Video (servizio poi definitivamente sostituito da YouTube) di una sequenza filmata che rietraeva un gruppo di ragazzini vessare in modo vergognoso un compagno diversamente abile – ci eravamo occupati a più riprese.
Dopo una prima condanna (Video shock: le motivazioni della condanna a Google) ed il successivo appello (Google Video: riparte il processo a tre dirigenti) che ha visto l’assoluzione dei rappresentanti di Google (Video-scandalo: i perché dell’assoluzione di Google), la vicenda è arrivata fino alla Corte di Cassazione che a dicembre scorso ha ribadito la decisione assunta in secondo grado.
Oggi si conoscono le motivazioni che hanno portato i togati della Cassazione a liberare Google di qualsiasi responsabilità. La società di Mountain View, si legge nella sentenza, “non ha alcun controllo sui dati memorizzati né contribuisce in alcun modo alla loro scelta, alla loro ricerca o alla formazione del file che li contiene, essendo tali dati interamente ascrivibili all’utente destinatario del servizio che li carica sulla piattaforma messa a sua disposizione“.
Viene quindi nuovamente riconosciuto il ruolo dell'”intermediario della comunicazione” che offre ai suoi utenti, anche abbonati, gli strumenti per comunicare in Rete ma che non può effettuare aprioristicamente un’azione di monitoraggio e censura a priori. Un concetto evidenziato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea: Corte di Giustizia europea: i provider non devono “filtrare”.
I responsabili dell’incresciosa vicenda che ha visto protagonista, purtroppo, un giovane affetto dalla sindrome di Down sono “i bulli”, coloro che lo hanno vessato e che hanno poi caricato il video in Rete. “I reati di cui all’articolo 167 del codice privacy, per i quali qui si procede“, hanno infatti stabilito i giudici della Cassazione, “devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi poteri decisionali“. Tradotto, non è possibile puntare il dito nei confronti del provider quando le responsabilità dovrebbero essere fatte ricondurre ai responsabili dell’orribile azione di bullismo e, in quanto minori, ai genitori. Da verificare anche il ruolo della scuola e del personale scolastico che avrebbe dovuto farsi parte attiva nell’isolare i violenti e nel condannare l’inqualificabile gesto.