Google ha annunciato che cambierà radicalmente le proprie politiche per quanto riguarda il geofencing, consentendo agli utenti di conservare i dati sui dispositivi in locale e non più sui server dell’azienda.
Il geofencing è una tecnica che permette di disegnare una sorta di perimetro virtuale intorno all’utente, che lo rende facile da individuare. L’iniziativa di Google pone fine a una pratica nota come geofence warrant, mandato di geofence, che permetteva alla polizia di accedere ai server del colosso tecnologico per identificare eventuali criminali. Come è facile intuire, questo tipo di iniziative ha suscitato negli utenti non pochi dubbi a livello di privacy.
Sebbene il comunicato di Google non citi i mandati di geofence, parla di una transizione dei dati dai server al singolo dispositivo. Sebbene le forze dell’ordine potranno comunque accedere agli stessi, sarà necessario agire sul telefono specifico invece di chiederli a Google.
Ma perché il colosso di Mountain View è così interessato ai dati relativi al geofencing? La risposta è alquanto semplice. Conoscendo la posizione degli utenti, Google riesce ad offrire pubblicità mirate agli stessi, aumentando i propri introiti.
Geofencing e non solo: la privacy degli utenti a rischio
L’utilizzo del geofencing nell’ottica di sorveglianza, però, non è esclusiva di Google.
Tutte le più grandi aziende del settore, da Yahoo fino a Microsoft, hanno a che fare con i mandati di geofence. Anche se non è chiaro quante siano le richieste da parte delle forze dell’ordine, il fenomeno resta dunque di ampia portata con o senza Google coinvolta direttamente. Soprattutto negli Stati Uniti, negli ultimi anni vi è stato un boom dell’utilizzo di geofencing per quanto riguarda le cause legali.
L’unica società ad aver reso pubblici alcuni numeri, nel contesto statunitense, è stata proprio Google. La stessa ha ricevuto 982 richieste nel 2018, cresciute a 8.396 nel 2019. Nel 2020 le forze dell’ordine hanno richiesto dati ben 11.554 volte. Un fenomeno, dunque, in costante crescita.
Nonostante la buona volontà di Google, la strada da percorrere è ancora lunga. Come affermato dall’EFF (Electronic Frontier Foundation), le forze dell’ordine utilizzano anche altre richieste simili, con una pratica nota come “parola chiave inversa“.
Questa, se possibile, è ancora più inquietante rispetto al geofence warrants, in quanto permette di controllare quali parole chiave ha cercato un soggetto accusato di un crimine.
In poche parole, la strada sembra ancora molto lunga ma, a tal proposito, Google sembra aver mosso dei passi incoraggianti verso una maggior privacy dei propri clienti.