Le capacità di archiviazione di dati da parte del cervello umano sono un argomento complesso e ancora oggetto di ricerca e dibattito scientifico. Non può esistere una misurazione precisa delle capacità di memorizzazione in termini di gigabyte o terabyte perché il cervello umano funziona in modo molto diverso rispetto ad esempio alle memorie digitali.
Il cervello umano è un organo incredibilmente complesso composto da miliardi di neuroni interconnessi. Le sue abilità poggiano sulla formazione e il rafforzamento di connessioni sinaptiche tra i neuroni, attraverso processi come l’apprendimento e l’esperienza.
Quanti terabyte di dati è in grado di conservare il cervello umano?
Tanti esperti, tuttavia, si sono a più riprese prodigati nello sforzo di provare a equiparare in qualche modo il cervello umano con il comportamento dello storage digitale. Uno dei primi esperti ad aver condotto delle stime in tal senso, è stato il professor Robert Birge, chimico pluripremiato che si è ampiamente occupato delle relazioni tra biologia ed elettronica. Già nel lontano 1996, presso la Syracuse University, Birge ha fatto un calcolo approssimativo per poi raffinarlo successivamente, all’Università del Connecticut.
Birge ha associato un neurone a un singolo bit (in un altro articolo parliamo di codice binario, bit e byte): una semplice moltiplicazione restituisce un valore, in termini di capacità di storage complessiva del cervello umano, pari a circa 5 TB (Terabyte). In realtà il docente ha pubblicato una serie di osservazioni per stimare che un valore più corretto potrebbe aggirarsi intorno ai 30-40 TB.
Uno studio successivo condotto dai ricercatori del Salk Institute, guidati da Terry Sejnowski, ha stimato che ogni connessione nel cervello potrebbe immagazzinare 10 volte di più di quanto conosciuto fino a quel momento. Tanto che si potrebbe addirittura parlare di Petabyte come misura per valutare il volume di dati che il cervello umano è in grado di stivare. Ne è convinto il professor Thomas Hartung della Johns Hopkins University, che parla di capacità di memorizzazione a livello cerebrale dell’ordine dei 2,5 Petabyte, equivalenti a 2.500 TB (ne parliamo più avanti).
Altre indagini simili collocano la capacità del cervello umano tra 50 e 200 TB. Sebbene si tratti di valutazioni puramente teoriche, difficilmente dimostrabili con dati e riscontri fattuali, i valori in gioco ci aiutano a immaginare qual è la mole di dati che ciascuno di noi può potenzialmente conservare. Soprattutto se il cervello è addestrato a farlo.
L’intelligenza artificiale sfida le abilità di memorizzazione del cervello umano
Se ai tempi dei floppy disk avevamo a disposizione appena 1,44 MB di capacità di storage e in questi giorni Seagate ha presentato i primi hard disk da 40 Terabyte di capienza, il progresso tecnologico che ha segnato il segmento dello storage è stato davvero vorticoso. Con innovazioni continue sul versante tecnologico.
E se si pensa che, come si può fare anche a casa o in ufficio con lo schema RAID ad esempio, la capacità delle singole unità di memorizzazione può essere combinata per creare soluzioni di storage scalabili e con un capienza virtualmente illimitata, il balzo in avanti compiuto negli ultimi anni appare ancora più incredibile.
L’avvento delle moderne intelligenze artificiali rappresenta una vera sfida rispetto alle abilità di memorizzazione del cervello umano. Modelli addestrati su miliardi di parametri sono in grado di cogliere in maniera sempre più puntuale l'”essenza” delle interconnessioni tra termini e, addirittura, concetti.
Addestramento, parametri utilizzati e abilità di memorizzazione
Una maggiore quantità di dati di addestramento risulta particolarmente vantaggiosa per l’intelligenza artificiale. Più dati sono disponibili, più il modello può apprendere da una vasta gamma di esempi e sviluppare una “comprensione” più approfondita dei pattern e delle relazioni all’interno dei dati.
La qualità dei dati di addestramento gioca però un ruolo essenziale: informazioni rappresentative e coerenti assicurano un apprendimento migliore del modello e contengono eventuali distorsioni.
Mentre il cervello umano ha una capacità di memorizzazione limitata, i sistemi di intelligenza artificiale possono utilizzare dispositivi di memorizzazione digitale per archiviare enormi quantità di dati. I server delle più grandi aziende tecnologiche possono immagazzinare petabyte o addirittura exabyte di dati.
Tuttavia, nonostante le capacità di memorizzazione e di elaborazione dati delle intelligenze artificiali, il cervello umano gode di vantaggi significativi in aspetti come la creatività, l’elaborazione di informazioni complesse e l’adattamento ai nuovi contesti. Il cervello umano è in grado di sviluppare connessioni interdisciplinari, apprendere da esperienze emotive e applicare la conoscenza in modi molto più ampi rispetto alle attuali intelligenze artificiali. Importanti novità dovrebbero arrivare con il modello generativo GPT-5 di OpenAI che dovrebbe essere capace di generare e comprendere più modalità di informazione. Un approccio multimodale nell’intelligenza artificiale consente di integrare e combinare le informazioni provenienti da diverse fonti. Si pensi ai diversi canali sensoriali e tipi di dati (testo, immagini, audio, video, informazioni posizionali,…).
Il passo successivo: l’intelligenza organoide
In questa prima parte del 2023 si è anche iniziato a parlare con maggior convinzione del concetto di intelligenza organoide. Su Science è stato recentemente pubblicato un articolo che descrive le potenzialità della bioinformatica, che potrebbe rivelarsi in futuro come una sorta di intelligenza artificiale di nuova generazione.
L’intelligenza artificiale ha tratto per lungo tempo ampia ispirazione dai meccanismi di funzionamento del cervello umano. Un approccio che si è rivelato di grande successo. Ma se invece di cercare di rendere le intelligenze artificiali più simili al cervello, andassimo direttamente alla fonte?
Lo ha spiegato Thomas Hartung rivelando che team di scienziati impegnati in più discipline stanno lavorando per creare biocomputer rivoluzionari in cui colture tridimensionali di cellule cerebrali, chiamate “organoidi cerebrali”, fungono da hardware biologico.
Cosa sono e come funzionano gli organoidi cerebrali
Gli organoidi cerebrali condividono aspetti chiave della funzione e della struttura del cervello come i neuroni e altre cellule cerebrali essenziali per le funzioni cognitive come l’apprendimento e la memoria. Trattandosi di strutture 3D, la densità cellulare della coltura risulta aumentata di 1.000 volte rispetto a una soluzione planare: è possibile formare molte più connessioni neurali.
“Mentre i computer basati su silicio sono certamente migliori con i numeri, il cervello è molto più efficace nell’apprendimento“, ha spiegato Hartung. “Il cervello non solo apprende meglio ma è anche più efficienti dal punto di vista energetico“. L’esperto cita ad esempio AlphaGo, l’intelligenza artificiale Google DeepMind che – addestrata su centinaia di migliaia di partite – è stata in grado di battere tutti gli umani, anche i campioni dei vari giochi. Ecco, la quantità di energia spesa per addestrare AlphaGo è superiore a quella necessaria per sostenere un adulto attivo per almeno un decennio.
“Il cervello umano ha anche la straordinaria capacità di immagazzinare informazioni, stimata a 2.500 TB“, ha aggiunto Hartung. “Stiamo raggiungendo i limiti fisici con le architetture basate sull’utilizzo del silicio perché non possiamo racchiudere più transistor in un minuscolo chip. Ma il cervello è strutturato in modo completamente diverso“.
La struttura dei biocomputer con intelligenza organoide
L’obiettivo sarà utilizzare gli organoidi cerebrali cresciuti in laboratorio per farli diventare un’intelligenza organoide vera e propria. I test stanno proseguendo in queste settimane: Hartung ha spiegato che gli attuali organoidi cerebrali sono troppo piccoli. Ciascuno contiene circa 50.000 celle; per arrivare a un’intelligenza organoide ne servono 10 milioni.
Parallelamente, gli autori stanno anche sviluppando tecnologie per comunicare con gli organoidi: in altre parole, per inviare loro informazioni e leggere quanto prodotto. Gli autori dello studio intendono adattare strumenti provenienti da varie discipline scientifiche, come la bioingegneria e l’apprendimento automatico, nonché progettare nuovi dispositivi di stimolazione e registrazione.
Non è fantascienza. Sebbene l’intelligenza organoide sia ancora agli inizi, uno studio pubblicato di recente da uno dei coautori dell’articolo pubblicato su Science, Brett Kagan, Chief Scientific Officer di Cortical Labs, ha offerto una prima interessante panoramica. Il team di Kagan ha dimostrato come una normale coltura di cellule cerebrali piatte possa imparare a giocare al videogioco Pong. “Da qui in poi, si tratta solo di costruire la comunità, gli strumenti e le tecnologie per realizzare il pieno potenziale dell’intelligenza organoide“, ha concluso il professor Hartung.