Il caso è noto: il 24 febbraio scorso tre dirigenti di Google vennero condannati dai giudici del Tribunale di Milano a sei mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, per la violazione della normativa sulla privacy. La sentenza sfavorevole fu l’apice del provvedimento avviato contro il motore di ricerca a seguito della pubblicazione, sul servizio Google Video di un video che raffigurava un ragazzo affetto dalla sindrome di Down deriso, insultato e percosso da alcuni compagni di classe. L’inqualificabile gesto si era verificato nel maggio 2006 in un istituto tecnico di Torino, durante l’orario scolastico. La scena fu ripresa dagli stessi studenti con un telefonino e posta online, in condivisione, su Google Video, il successivo 8 settembre per poi essere rimosso, due mesi dopo, dai tecnici della società di Mountain View.
La sentenza emessa a fine febbraio dal Tribunale di Milano provocò immediatamente un’eco enorme su tutti i media nazionali ed internazionali in forza dell’importante precedente prodotto. Il fornitore di un servizio Internet è stato infatti ritenuto colpevole per aver ospitato contenuti prodotti e caricati da terzi.
E nelle scorse ore, così come previsto, sono state pubblicate le motivazioni che hanno indotto i giudici ad emettere la sentenza di condanna nei confronti dei dirigenti di Google. Il dispositivo della sentenza è particolarmente “impegnativo”: sono ben 111 le pagine del provvedimento con il quale viene motivata la decisione recentemente assunta dal Tribunale milanese.
Cercando di fare un breve sunto della decisione, il giudice Oscar Magi ha ritenuto colpevole Google Italy per non aver adeguatamente informato la persona che ha caricato online il video (una studentessa) circa i diritti a tutela della privacy di cui dispongono i soggetti rappresentati nei contenuti audiovisivi. Con esplicito riferimento, ovviamente, al ragazzo diversamente abile.
L’avvocato Guido Scorza, uno dei più autorevoli esperti di diritto informatico e di tematiche connesse alla libertà di espressione ed alle politiche di innovazione oltre che Presidente dell’Istituto per le Politiche dell’Innovazione, nella sua analisi, estrapola la frase seguente: <<NON costituisce condotta sufficiente ai fini che le legge impone, “nascondere” le informazioni sugli obblighi derivanti dal rispetto della legge sulla privacy all’interno di “condizioni generali di servizio” il cui contenuto appare spesso incomprensibile, sia per il tenore delle stesse che per le modalità con le quali vengono sottoposte all’accettazione dell’utente; tale comportamento, improntato ad esigenze di minimalismo contrattuale e di scarsa volontà comunicativa, costituisce una specie di “precostituzione di alibi” da parte del soggetto/web e non esclude, quindi, una valutazione negativa della condotta tenuta nei confronti degli utenti>>. L’avvocato Scorza pone una domanda: “si può davvero ipotizzare che se Google nelle proprie condizioni generali di utilizzo del servizio avesse avvertito, in caratteri più grandi e magari in grassetto, una bambina di dodici anni dell’esigenza di assicurarsi il consenso al trattamento dei dati personali del bambino disabile protagonista del video caricato, questa vi avrebbe provveduto?”
Nella sentenza, tuttavia, non sembrano esserci le risposte che in molti attendevano: il primo punto, già citato in molte analisi del testo, riguarda la possibilità di applicare la normativa italiana in materia di tutela della privacy a trattamenti di dati che sembrano essere svolti all’estero da un soggetto straniero; il secondo spunto di riflessione è collegato al ruolo che Google riveste. In un servizio di hosting di contenuti audiovisivi come Google Video o YouTube, Google può essere considerato come un “intermediario”? In caso affermativo la disciplina da applicare dovrebbe essere quella sul commercio elettronico.
Il giudice Magi, nelle considerazioni finali, ha osservato di aver registrato la grande ricaduta mediatica – per lui inaspettata – del procedimento. “La condanna in ordine al reato di illecito trattamento dei dati personali“, ribadisce il giudice, è giunta sulla base “di un’insufficiente (e colpevole) comunicazione degli obblighi di legge nei confronti degli uploaders, per fini di profitto“. Il testo del provvedimento si chiude con la citazione di un’espressione latina: “legum servi esse debumus, ut liberi esse possumus“. “Non c’è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta“, scrive il giudice, restando in attesa di una “buona legge” sull’argomento in questione.
Google, da parte sua, ha ribadito che ricorrerà in appello. “Questa condanna attacca i princìpi stessi su cui si basa Internet“, si è dichiarato dalla società. “Se questi principi non venissero rispettati, il Web così come lo conosciamo cesserebbe di esistere e sparirebbero molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologiche che porta con sé“.
Il testo integrale della sentenza appena pubblicata, è consultabile cliccando qui.