I giudici della Corte d’Appello di Milano hanno reso pubbliche le motivazioni che hanno portato alla piena assoluzione dei tre dirigenti di Google, condannati in primo grado per non aver posto in essere tutte le verifiche atte ad impedire la pubblicazione online di un video che ritraeva un ragazzo diversamente abile pesantemente vessato da alcuni suoi compagni di classe. Il video era stato “girato” con un telefonino da parte di una giovane studentessa quindi caricato sul servizio Google Video.
La vicenda dette il via ad una lunga scia di commenti e di valutazioni che si sono susseguiti addirittura per più di sei anni (il caso fu denunciato dall’associazione ViviDown Onlus). L’accaduto ha posto l’accento, ancora una volta, sul ruolo del cosiddetto “intermediario della comunicazione”. La società di Mountain View si è infatti sempre difesa spiegando come non sia praticamente possibile effettuare un controllo a priori su tutto il materiale che viene caricato sui servizi di condivisione video. Il gestore di tali servizi, operando in accordo con la normativa sul commercio elettronico, mette a disposizione l’infrastruttura per caricare online un contenuto e si attiva nel momento in cui arrivino giustificate richieste di rimozione dei contenuti oppure provvedimenti giudiziari. “Sarebbe come voler perseguire il servizio postale per il contenuto diffamatorio di una lettera che si è ricevuto“, osservò una portavoce di Google già quattro anni fa prima che si aprisse il processo.
La sentenza di primo grado aveva rigettato la tesi dei legali di Google spostando l’attenzione su un punto in particolare: l’esposizione delle informazioni circa il rispetto degli adempimenti previsti dalla normativa sulla privacy (Video shock: le motivazioni della condanna a Google).
I togati della Corte d’Appello, ribaltando la precedente decisione, hanno invece chiaramente spiegato (in sole 33 pagine di decisione contro le 111 prodotte dal giudice Oscar Magi; Video shock: assolti i tre manager di Google) che non spetta a Google e quindi, più in generale, all'”intermediario della comunicazione” informare gli utenti circa la necessità di raccogliere il consenso al trattamento dei dati personali ogniqualvolta si pubblichino in Rete video o materiali fotografici ritraenti soggetti terzi.
Non si tratta, quindi, di non condannare il gesto inqualificabile di cui si sono macchiati i compagni del giovane diversamente abile ma di evitare di spostare la responsabilità su soggetti totalmente estranei alla vicenda. Google e, di concerto, i suoi manager, non sono i titolari del trattamento dei dati: sono gli utenti i diretti responsabili di ciò che caricano online e diffondono sul web attraverso i servizi offerti dall’azienda di Mountain View.
La sentenza meneghina, a questo punto, costituisce una vera e propria pietra miliare: come osserva l’avvocato Guido Scorza, uno dei più autorevoli esperti di diritto informatico e di tematiche connesse alla libertà di espressione ed alle politiche di innovazione “esiste un rapporto stretto e pericoloso tra il tema della responsabilità degli intermediari della comunicazione e la libertà di manifestazione del pensiero. È un rapporto inversamente proporzionale: più aumenta la responsabilità degli intermediari più rischia di essere compressa la libertà di manifestazione del pensiero dei miliardi di utenti della Rete“.