Mentre Oltreoceano, negli Stati Uniti, le vertenze legali sui brevetti software sono all’ordine del giorno (si pensi, ad esempio, alla vicenda che vede da tempo contrapposte Google ed Oracle), in Europa non si è mai verificato nulla di simile. Perché? Perché il codice che regola il funzionamento di un software non può essere brevettato da parte di nessun soggetto.
Anzi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha appena emesso una sentenza che rappresenta una vera e propria pietra miliare nel mondo del software. Nel Vecchio Continente, infatti, le aziende attive nel campo dello sviluppo software si erano da sempre date battaglia sul piano della proprietà intellettuale. Non essendo un’applicazione brevettabile, le discussioni si sono incentrate sulle violazioni del copyright.
I giudici della Corte Europea hanno stabilito che le normative sul diritto d’autore non possono proteggere né i linguaggi di programmazione, né le istruzioni che concorrono al funzionamento di un programma, né le cosiddette API (“Application Programming Interfaces“).
I togati hanno posto la parola fine in una causa che vedeva contrapposte due società specializzate nello sviluppo software: SAS e World Programming Limited (WPL). SAS aveva contestato a WPL di aver sviluppato un’applicazione che ricalcava in tutto e per tutto il funzionamento operativo di un loro programma. I tecnici di WPL avevano acquistato una normale licenza d’uso del software firmato SAS, ne avevano studiato il comportamento e lo avevano riprodotto arrivando a commercializzare un prodotto dalle funzionalità assolutamente similari.
Trattandosi di un software di tipo “proprietario” già compilato, WPL non ha avuto la possibilità di vedere il codice di programmazione vero e proprio alla base del funzionamento dell’applicazione SAS.
Dando torto a SAS, i giudici europei hanno sancito un punto importante: chi acquista una licenza d’uso di un qualunque software ha il pieno diritto di studiarne il funzionamento. Vanno quindi considerate come nulle le clausole imposte dalle software house che dovessero eventualmente impedire tali attività. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha così di fatto dato il suo benestare alla pratica nota con il nome di “reverse engineering“. Con tale termine si fa riferimento a quelle operazioni che permettono di esaminare e studiare in profondità il funzionamento di un qualunque software senza alterarne il comportamento.
Consentire l’imposizione del copyright sulle funzionalità di un programma informatico, spiegano i giudici, taglierebbe le gambe alla libera diffusione delle idee, contribuirebbe alla creazione di monopoli e taglierebbe completamente le gambe all’innovazione.