Il processo si era aperto nel mese di febbraio 2009 e, circa un anno dopo, aveva fatto registrare la condanna di tre dirigenti di Google. La vicenda riguarda la pubblicazione, avvenuta nel 2006, di un orribile filmato che ritraeva un ragazzo affetto dalla sindrome di down mentre veniva molestato da parte di un gruppo di compagni di classe. Il video, girato con un telefonino, fu caricato su Google Video (YouTube, all’epoca, non era stato ancora acquisito da Google) da parte di una studentessa.
La vicenda è complessa perché riporta l’attenzione su quello che è il ruolo del cosiddetto “intermediario della comunicazione“. La società di Mountain View si è infatti sempre difesa spiegando come non sia praticamente possibile effettuare un controllo a priori su tutto il materiale che viene caricato sui servizi di condivisione video. Il gestore di tali servizi, operando in accordo con la normativa sul commercio elettronico, mette a disposizione l’infrastruttura per caricare online un contenuto e si attiva nel momento in cui arrivino giustificate richieste di rimozione dei contenuti oppure provvedimenti giudiziari.
“Sarebbe come perseguire il servizio postale per il contenuto diffamatorio di una lettera che si è ricevuto“, osservò una portavoce di Google già quattro anni fa prima che si aprisse il processo.
La tesi, tuttavia, non fu accolta dal giudice milanese Oscar Magi che il 24 febbraio 2010 condannò tre dirigenti di Google a sei mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, per la violazione della normativa sulla privacy. La sentenza sfavorevole ai responsabili della società statunitense destò molto scalpore perché fu il primo caso in cui il fornitore di un servizio Internet è stato ritenuto colpevole per aver ospitato contenuti prodotti e caricati online da terzi.
Il processo è proseguito in appello e proprio quest’oggi il sostituto procuratore generale di Milano, Laura Bertolé Viale, ha chiesto oggi la conferma della condanna inflitta in primo grado ai tre dirigenti di Google. L’accusa ribadisce, insomma, che i responsabili di Google avrebbero dovuto adoperarsi ex ante per impedire la pubbliacazione dell’inqualificabile video. “Non solo è stata violata la privacy del minore, ma sono anche state date lezioni di crudeltà ai 5.500 visitatori che hanno visto il video“, ha rincarato la dose il sostituto procuratore meneghino. Google avrebbe dovuto “effettuare un controllo sui dati caricati in rete, un controllo preventivo che avevano la possibilità di fare e che non è stato fatto per ragioni di costo, un controllo che infatti avrebbe rallentato l’azione di Google sul mercato dei video che era in forte espansione“, ha continuato la Bertolé Viale.
“Si può davvero ipotizzare che se Google nelle proprie condizioni generali di utilizzo del servizio avesse avvertito, in caratteri più grandi e magari in grassetto, una bambina di dodici anni dell’esigenza di assicurarsi il consenso al trattamento dei dati personali del bambino disabile protagonista del video caricato, questa vi avrebbe provveduto?“, si era chiesto l’avvocato Guido Scorza, uno dei più autorevoli esperti di diritto informatico e di tematiche connesse alla libertà di espressione ed alle politiche di innovazione, dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado.
I legali di Google hanno sempre ribadito, d’altra parte, come il controllo non spetti alla società di Larry Page e Sergey Brin. “Non esiste nell’ordinamento italiano un obbligo per Google di controllare il contenuto dei video“, ha sostenuto l’avvocato Giuseppe Vaciago, uno dei legali della società, che invece sposta le responsabilità sulla professoressa. “Non ha mosso un dito mentre i ragazzi filmavano, ha guardato impassibile una scena riprovevole. A differenza nostra che non avevamo un obbligo giuridico di controllo, lei ce l’aveva“, ha continuato Vaciago sottolineando come, nel suo ruolo di intermediario della comunicazione, Google abbia provveduto ad eliminare il video due ore dopo la segnalazione arrivata dalla Polizia Postale.
C’è poi il punto legato alla memorizzazione del filmato riprovevole che sì è stato caricato su Google Video dall’Italia ma che “fisicamente” è stato salvato, attraverso la rete Internet, sui server dell’azienda locati negli Stati Uniti, in California.