Anche l’Europa, scossa dalla carenza di chip che affligge l’industria, vuole rafforzare la lavorazione dei semiconduttori entro i confini dell’Unione.
Abbiamo già visto cos’è il Chips Act, una misura con cui la Commissione Europea intende portare “a casa propria” entro il 2030 almeno il 20% della produzione globale di semiconduttori.
Il modello che è stato evidentemente preso come riferimento è un provvedimento simile adottato dall’amministrazione statunitense e che il presidente Joe Biden ha per il momento finanziato investendovi 52 miliardi di dollari. Il progetto europeo, fortemente sostenuto dal commissario Thierry Breton, prevede lo stanziamento di una somma simile: 48 miliardi di euro.
Più importanti della quantità di denaro investita sono le modifiche alla legge europea sulle sovvenzioni che si applicano eccezionalmente alle aziende che lavorano i chip per l’industria dell’elettronica e in generale tecnologica.
Con la sua mossa l’Unione Europea si augura di attirare produttori stranieri come la taiwanese TSMC o Intel, con la sua divisione Intel Foundry Service (ISF). L’obiettivo è quello di portare in Europa nuovi stabilimenti produttivi capaci di usare tecnologie a 2 nm o con una miniaturizzazione ancora più spinta.
Alcune associazioni industriali sono comunque scettiche: chi comprerà chip prodotti nell’Unione Europea se altrove risulteranno più economici? Sarà possibile rispondere alla sfida dei colossi asiatici sul piano dei prezzi?
Gli esperti del settore mettono in guardia da una cattiva gestione degli investimenti: da un lato si raccomanda un rafforzamento della rete con i partner internazionali, soprattutto per quanto concerne la vulnerabile e complessa catena di approvvigionamento per i prodotti primari, dall’altro lato si dovrebbe promuovere lo sviluppo dei chip più moderni e più complessi proprio nell’Unione Europea. La European Processor Initiative (EPI) che si concentra su processori per supercomputer e veicoli autonomi è uno di questi progetti.
Altre voci critiche temono una corsa alle “sovvenzioni di Stato” da parte di altre realtà: Paesi come la Cina, la Corea del Sud e Taiwan hanno aiutato i loro produttori di chip per anni e anche gli Stati Uniti e il Giappone guardano nella stessa direzione.
La Commissione conta evidentemente sul fatto che la Cina ha evidenziato un rallentamento nel supporto dell’industria interna dei chip e fornitori importanti per chi realizza chip si trovano in Unione Europea: si pensi alla olandese ASML, produttrice dei più avanzati sistemi litografici o ad aziende come Siltronic (wafer), Jenoptik e Zeiss (ottica), Trumpf (laser).
Il Chips Act europeo mira anche a garantire la cosiddetta sovranità digitale ovvero a ridurre la dipendenza da fornitori stranieri per chip essenziali in infrastrutture critiche e importanti settori industriali.
La maggior parte dei chip acquistati in Europa fino ad oggi sono quelli destinati al mercato automotive: nelle auto c’è bisogno di sensori, elettronica di potenza e microcontrollori.
E infatti si tratta di componenti prodotti dai maggiori produttori di chip europei come Infineon e STMicroelectronics, Bosch, NXP e X-Fab. Le auto del futuro necessiteranno però di processori e acceleratori di calcolo sempre più potenti, ad esempio per valutare in tempo reale le immagini delle telecamere e per le funzioni di guida autonoma.
Poiché in Unione Europea si è finora prodotto soltanto il 9% dei chip complessivamente realizzati a livello mondiale, con un mercato in crescita rapida e vorticosa l’obiettivo del 20% che si è prefisso la Commissione per il 2030 pare ad oggi molto ambizioso.
In ogni caso il Chips Act è nel complesso una buona idea perché non solo tocca il tasto dei finanziamenti ma permetterà di approvare più rapidamente i progetti presentati dall’industria.
La legge non è comunque stata ancora approvata: ci sarà bisogno della benedizione del Parlamento europeo e del “via libera” dei governi degli Stati membri.