Buona parte della popolazione lamenta forti preoccupazioni quando sente parlare di “radiazioni”. Ma quando si fa riferimento alle comunicazioni wireless è bene sgombrare il campo da qualunque equivoco.
Il termine “radiazioni” fa correre subito la mente ai raggi X e gamma: i primi sono utilizzati in primis per fini medici (le radiografie) mentre i secondi sono prodotti dal decadimento radioattivo dei nuclei atomici (raggi gamma e neutroni si rilevano ancora oggi, per esempio, nella cosiddetta zona di esclusione di Chernobyl).
Insieme con le radiazioni ultraviolette (UV) ad alta frequenza, quelle citate si dicono radiazioni ionizzanti perché trasportano abbastanza energia da liberare elettroni da atomi o molecole, ionizzandoli appunto. Esse sono caratterizzate da una lunghezza d’onda molto corta e sono certamente pericolose per la salute.
Le radiazioni citate “occupano” la parte dello spettro elettromagnetico con lunghezze d’onda invisibili all’occhio umano. La porzione dello spettro che i nostri occhi sono in grado di riconoscere è infatti molto limitata ed è oltre il violetto che si parla appunto di raggi UV.
Gli effetti biologici delle radiazioni che hanno una lunghezza d’onda inferiore a quella del violetto è facilmente riconoscibile. Limitandoci ai soli raggi UV basti pensare come il sole sia responsabile di fenomeni quali abbronzatura, efelidi, eritemi solari e, purtroppo, anche tumori della pelle. Camminare per ore sotto il sole senza un’adeguata protezione può essere, com’è noto, causa di danni: sono gli effetti di una radiazione ionizzante qual è quella solare.
Aumentando le lunghezze d’onda oltre lo spettro del visibile (oltre il colore rosso), invece, si incontrano l’infrarosso, le microonde, le onde radio. Queste radiazioni non hanno carattere ionizzante e non sono in grado di interagire negativamente con i tessuti organici.
Le radiazioni elettromagnetiche possono aumentare i rischi di patologie tumorali?
Nel documento aggiornato World Cancer Report: Cancer Research for Cancer Prevention elaborato da Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), a pagina 84 e seguenti, si conclude che “la maggior parte della ricerca epidemiologica non supporta un’associazione tra l’uso del telefono cellulare e i tumori che si verificano nella testa, che è la parte del corpo con la più alta esposizione ai campi elettromagnetici a radiofrequenza. Negli studi che riportano associazioni positive, è difficile escludere varie forme di distorsione. (…) Nonostante i notevoli sforzi di ricerca, nessun meccanismo rilevante sul piano della cancerogenesi è stato identificato fino ad oggi per quanto riguarda i campi elettromagnetici a radiofrequenza. Inoltre, la maggior parte della ricerca epidemiologica non indica la cancerogenicità dei campi elettromagnetici a radiofrequenza. Ciò implica che ogni rischio potenzialmente non rilevato dovrebbe essere ridotto dal punto di vista del singolo individuo“.
E ancora si osserva che: “i campi elettromagnetici a radiofrequenza appartengono alla zona non ionizzante dello spettro elettromagnetico, l’energia in gioco è troppo debole per ionizzare le molecole e quindi causare danni diretti a livello di DNA. L’assorbimento delle radiazioni elettromagnetiche è noto per gli effetti di riscaldamento sul tessuto biologico ma un minimo aumento della temperatura al di sotto dei limiti normativi non dovrebbe aumentare il rischio di cancro. Nonostante i notevoli sforzi di ricerca, nessun meccanismo rilevante per la carcinogenesi è stato identificato fino ad oggi“.
Quali sono gli effetti dei campi elettromagnetici rilevati sul corpo umano?
Come confermato anche nel documento di OMS e IARC, l’effetto noto delle radiazioni elettromagnetiche è un certo riscaldamento del tessuto biologico esposto: un’onda elettromagnetica che raggiunge il corpo umano viene parzialmente assorbita e la sua energia convertita in calore (con un aumento di temperatura che è limitato).
Parlando di antenne, le normative vigenti già prevedono limiti stringenti in termini di potenze e intensità di campo. Tanto che, come si legge anche nel World Cancer Report: Cancer Research for Cancer Prevention, sono semmai “i cellulari fonte dell’apporto più marcato in termini di esposizione e poiché la potenza scende rapidamente aumentando la distanza dalla fonte (legge dell’inverso del quadrato), la misura precauzionale più semplice ed efficace è quella di tenere lo smartphone un po’ più lontano dal corpo durante l’utilizzo. In questo modo si determinerà una sostanziale riduzione dell’esposizione“.
In altre parole, si guarda con preoccupazione alle antenne quando invece non si pensa che è proprio lo smartphone, soprattutto se utilizzato in maniera smodata e tenuto per ore all’orecchio, la sorgente dell’apporto più marcato in termini emissioni elettromagnetiche. Come fare qualche test “spannometrico” e senza valenza scientifica? Provate a installare l’app Electrosmart per i terminali Android e seguire le indicazioni riportate nell’articolo 5G pericoloso, tutte bufale o può esserci qualcosa di vero?.
A questo proposito va però osservato che ogni smartphone non può superare i 2 W/kg in termini di valore SAR. Tale parametro esprime la quantità di potenza da radiofrequenze assorbita dal corpo umano nell’unità di tempo quando esso viene esposto al campo elettromagnetico prodotto dallo specifico modello di cellulare o smartphone.
È sufficiente riflettere sul fatto che bisognerebbe arrivare a un valore SAR 50 volte più elevato per riscontrare un effetto sui tessuti organici in termini di aumento della temperatura.
Il 5G non è una tecnologia nuova, sulla quale non si dispongono dati
Le reti 5G non differiscono rispetto alle precedenti generazioni in termini di esposizione ai campi elettromagnetici ed anzi si basa sugli stessi principi fisici che consentono a qualunque apparecchiatura radio di trasmettere e ricevere informazioni (compresa la TV digitale terrestre e il satellite).
Le reti 5G fanno uso di versioni ottimizzate delle tecniche di trasmissione con modulazione a multi-portante, una serie di accortezze che derivano dai progressi compiuti nel campo dell’ingegneria dell’informazione e dei cosiddetti codici polari (consentono di trasmettere i dati in maniera più efficiente ottimizzando le prestazioni di codifica sulle reti 5G e velocizzando le prestazioni; grazie ai codici polari ci si avvicina alla soglia imposta dal limite di Shannon ovvero la velocità massima a cui i dati possono essere inviati, su una certa banda di frequenza, mantenendo un tasso di errore pari a zero).
Si sente parlare, di una presunta “sperimentazione 5G svolta sulla pelle di milioni di italiani“. In realtà i test che sono stati condotti in vista del dispiegamento delle reti 5G erano “sperimentazioni tecniche”, non attività volte a trasformare i cittadini in topi da laboratorio.
Come detto, il 5G si pone sulla stessa scia delle precedenti generazioni introducendo alcuni importanti accorgimenti di natura tecnica. Per dispiegare la rete, però, c’è bisogno di “prove sul campo”.
Il 5G non rischia di aumentare l’inquinamento elettromagnetico?
Ciascuno di noi vive ogni giorno immerso in un “mare” di radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti: esse permeano la nostra civiltà e l’inquinamento elettromagnetico, seppur con varie intensità, è rilevabile sia nelle aree più densamente popolose così come in quelle meno urbanizzate.
Buona parte dei dispositivi che usiamo (lo smartphone, il tablet, il router, gli access point WiFi, i range extender, lo smart TV, il decoder TV smart, i TV box, gli auricolari Bluetooth, gli amplificatori WiFi/Bluetooth, le chiavette dotate di SIM/connettività WiFi,…) contribuiscono all’inquinamento elettromagnetico ma il loro apporto è da considerarsi talmente contenuto da essere di fatto irrilevante.
L’installazione di antenne 5G può comportare nel breve periodo un aumento dell’inquinamento elettromagnetico ma la tendenza, con l’evoluzione della tecnologia, è quella di spegnere progressivamente le antenne di precedente generazione.
Come la mettiamo con le onde millimetriche? Il 5G aumenta le frequenze operative in maniera importante
Il “pensare comune” suggerisce che aumentando la velocità di trasferimento dati e le frequenze operative possano crescere i rischi per la salute. Ma non è così.
Gli operatori di telecomunicazioni che nell’asta indetta dal Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) si sono a suo tempo aggiudicati in licenza le varie frequenze lavoreranno sulle reti 5G utilizzando molte delle frequenze già adoperate fino ad oggi.
In Italia sono stati assegnati agli operatori i diritti di licenza e utilizzo delle frequenze per il 5G tre bande distinte: 694-790 MHz, 3600-3800 MHz e 26,5-27,5 GHz.
Le prime sono nell’ordine di quelle già adoperate sino ad oggi: basti pensare che le prime sui 700 MHz sono le stesse utilizzate per il digitale terrestre che i network televisivi sono tenuti a liberare proprio per il 5G e in vista del passaggio allo standard DVB T2: DVB T2, cos’è e cosa cambia con la nuova tecnologia. Le seconde sono già utilizzate per le trasmissioni radiomobili di generazione inferiore, da anni.
Nelle mozioni e nei provvedimenti di alcuni enti locali si legge, ad esempio, “il 5G opererà su frequenze più elevate di quelle sino ad ora utilizzate dai sistemi di radiotelefonia (superiori ai 30 GHz) e renderà necessaria l’installazione in area urbana di numerosissimi micro-ripetitori (con aumento della densità espositiva) a causa degli ostacoli alla trasmissione lineare di questo particolare tipo di segnale da parte di palazzi e aree verdi“.
Innanzi tutto va detto che c’è un errore – non si sa se materiale o meno -: i servizi 5G non saranno erogati in Italia su frequenze superiori ai 27,5 GHz come da bandi e regolamenti MISE.
Inoltre non si può parlare neppure di “onde millimetriche” perché il termine mmWave si riferisce solo alle frequenze sulla banda dei 30-300 GHz: in questo caso la lunghezza d’onda varia appunto tra 1 e 10 millimetri (da qui scaturisce il termine “onde millimetriche”). A 26 GHz si ha una lunghezza d’onda di poco superiore a 1 centimetro.
Si percepisce però un diffuso timore legato all’utilizzo di frequenze più elevate
Si tratta di un timore giustificato? In breve, “no”.
Quando la frequenza cresce, la lunghezza d’onda si fa più corta. Usando particolari modulazioni, già apparecchi wireless che trasmettono e ricevono il segnale possono trasformarlo in dati.
Trasmettendo a frequenze basse, la lunghezza d’onda è ampia cosicché le operazioni di modulazione avvengono alla velocità di una lumaca (banda ridotta, rete lenta). Com’è lecito attendersi, aumentando le frequenze i dispositivi trasmittente e ricevente possono dialogare molto più velocemente (banda maggiore, scambio dei dati molto più rapido).
Ovviamente la velocità di tutte le emissioni elettromagnetiche intesa come lo spazio percorso nell’unità di tempo è sempre la stessa a prescindere dalla frequenza.
Frequenze elevate sono per loro natura meno penetranti: non superano o superano con molta difficoltà eventuali ostacoli
Lo confermano le modalità con le quali si sono concentrate le offerte degli operatori di telecomunicazioni durante l’asta indetta dal MISE: il blocco 26,5-27,5 GHz è stato di fatto “snobbato”.
Sì perché questa porzione dello spettro sarà utilizzata, almeno per il momento, solo in luoghi ad alta densità di traffico come i centri delle città, gli stadi o gli impianti industriali con l’obiettivo di fornire connettività ad elevatissime prestazioni.
Oltre alla realizzazione di piccole celle 5G, le frequenze 26,5-27,5 GHz verranno usate per allestire collegamenti radio ultraperformanti tra antenne posizionate in perfetta visibilità ottica. Dal momento che una connessione punto-punto di questo tipo permette di ottenere velocità anche molto superiori a diversi Gigabit per secondo, gli operatori useranno soluzioni basate sul blocco 26,5-27,5 GHz per assicurarsi prestazioni migliori rispetto allo stesso uso della fibra ottica su distanze fino a 5-10 chilometri e con investimenti contenutissimi.
Per la loro capacità di raggiungere velocità nell’ordine dei Gigabit al secondo, le frequenze sui 26 GHz sono quindi adatte allo sviluppo dei servizi 5G Fixed Wireless Access (FWA), sia nelle aree non ancora raggiunte dalla banda ultralarga con accesso da postazione fissa, sia per la realizzazione di coperture indoor 5G “dedicate”. Caratteristiche abilitanti, ad esempio, per nuovi scenari di Industria 4.0 basati su servizi ad altissima velocità, bassissima latenza e massimo livello di sicurezza e affidabilità.
Le frequenze sui 27 GHz e oltre non sono “inesplorate” (?) come vengono definite da qualcuno.
Segnali ad elevata frequenza vengono ostacolati dai muri degli edifici e dagli alberi: facile intuire che penetrano ancor meno attraverso i tessuti biologici.
Ecco perché in ambito strettamente locale – vista la ridotta “gittata” – gli operatori installeranno una batteria di piccole celle: ma aumentare il numero delle antenne significa anche diminuire le emissioni elettromagnetiche. Il 5G, inoltre, è una tecnologia che non trasmette per il 100% del tempo rispetto ad esempio al 4G e tende quindi a ridurre le emissioni.
E in termini di intensità del campo elettromagnetico?
Le antenne 5G non aumenteranno l’intensità del campo elettromagnetico. Nel nostro Paese è sempre in vigore una normativa che fissa a 6 V/m il limite massimo del campo elettrico per i segnali irradiati dalle antenne ove ci sia presenza di persone in forma stabile (residenti) o temporanea. Negli Stati Uniti tale valore limite è fissato a 61 V/m mentre in altri Paesi europei si arriva comunque oltre i 20 V/m.
Semmai, via a via, gli operatori inizieranno a spegnere le antenne 3G considerando che i dispositivi che fanno uso di questo standard sono sempre di meno.
E i 180 studiosi che hanno richiesto una moratoria? E lo studio dell’Istituto Ramazzini?
A suo tempo (settembre 2017) 180 studiosi hanno chiesto una moratoria in vista del dispiegamento della nuove reti 5G con il preciso obiettivo di studiare gli effetti a lungo termine dell’esposizione ai campi elettromagnetici.
Più di recente l’Istituto Ramazzini di Bologna viene frequentemente citato come la realtà che ha acclarato un collegamento tra l’esposizione alle emissioni elettromagnetiche e l’insorgenza di alcuni tumori come neurinomi e gliomi.
A questo indirizzo sono pubblicati tutti i dati relativi allo studio svolto dal Ramazzini. Un insieme di ratti da laboratorio sono stati esposti per 19 ore al giorno alle emissioni sin dal momento del primo concepimento a campi elettrici di crescente intensità, fino a 50 V/m, e sino alla morte delle cavie.
Nella ricerca si fa presente che sono stati rilevati “aumenti statisticamente significativi” di tumori maligni a livello cardiaco (schwannomi maligni) nei ratti maschi esposti al campo elettromagnetico più potente: 50 V/m, ovvero quasi 10 volte il limite massimo in vigore nel nostro Paese. Nei ratti di sesso femminile non è stato riscontrato alcun aumento dell’incidenza, anzi.
Sono poi stati rilevati solo alcuni aumenti dell’incidenza tumorale, sempre a 50 V/m, che vengono definiti dallo stesso Ramazzini come “statisticamente non rilevanti“.
Già nel 2018 ICNIRP, acronimo di International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection, organismo non governativo formalmente riconosciuto dall’OMS che si occupa di ricerca sul tema dei possibili effetti nocivi sul corpo umano derivanti dall’esposizione a radiazioni non ionizzanti, aveva fatto presente come lo studio del Ramazzini non fornisse evidenze consistenti, affidabili e generalizzabili sottolineando anche che i topi da laboratorio fanno registrare nel tempo patologie tumorali molto più frequentemente che negli esseri umani senza che esse possano essere poste in correlazione con l’esposizione ai campi elettromagnetici. Falsi positivi, insomma.
E oltre alla conclusioni di OMS e IARC sulla stessa scia si pongono quelle dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS): Uso prolungato dello smartphone ed esposizione a radiofrequenze: le conclusioni dell’ISS.